testo e foto di Valentina Valle Baroz

1 novembre 2018

Lo scorso 13 ottobre migliaia di honduregni hanno lasciato a piedi San Pedro Sula, diretti verso gli Stati Uniti. La stampa internazionale, le organizzazioni per i diritti umani, le Nazioni Unite e i governi di tutto il mondo hanno improvvisamente guardato verso l’Honduras, ma continuano a non vederlo. Gli honduregni da decenni allertano la comunità internazionale sulla situazione disastrosa che esiste nel paese (omicidi, femminicidi, sequestri di persona, estorsioni, espropriazioni di terra e neo-estrattivismo). L’esodo di migranti è solo l’ultimo di una serie di azioni di protesta che mirano a cambiare il corso delle politiche neoliberali del presidente imposto Juan Orlando Hernández.
Il seguente testo è parte di una serie di tre articoli che cercano di inquadrare questo esodo nel contesto a cui appartiene, visto che i migranti non hanno solo bisogno di solidarietà e sostegno, ma anche di rispetto e dignità per le loro lotte passate, presenti e future.

Parte I.
Cronaca di un giorno di esodo

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Come si descrive un esodo? Come si descrive quest’esodo? Dove la gente è uscita di casa come se andasse a comprare le tortillas mentre in realtà andava negli Stati Uniti. Non c’era stata, né c’è una pianificazione. Non hanno fatto le valigie, nemmeno una tenda, niente sacchi a pelo. Non hanno niente, solo la loro esasperazione, la loro determinazione e la loro euforia, non necessariamente in quest’ordine. E capisco perché i cronisti che passano di qua scattano una foto e se ne vanno, poi lo descrivono come una disgrazia umanitaria. Quando alla fine ho raggiunto l’esodo a Tapanatepec, nell’istmo di Oaxaca, ciò che mi sono trovata davanti è stato letteralmente un tappeto di persone, buttate sull’asfalto incandescente delle tre del pomeriggio, gli occhi chiusi, le gambe gonfie, i bambini che piangevano.

Ho capito il clima di emergenza descritto dalla stampa perché il primo impatto è stato duro. Il caldo soffocante, la stanchezza, le piaghe. Mi ci sono volute due ore per prendere la macchina fotografica, e altre due per iniziare a usarla. Finché non è arrivata la mia amica Magui, ho avuto solo il coraggio di fare un paio di giri attorno alla piazza di fronte alla chiesa. Non ho fatto nemmeno un’intervista. Ho osservato e ascoltato, mentre ripetevo parole e immagini nella mia mente per trascriverle sul quaderno, quando avrei trovato il coraggio di tirarlo fuori.

Il tempo che ho condiviso negli ultimi anni con i migranti che passano dal Messico andando verso gli Stati Uniti mi ha insegnato che ognuna di queste persone, anche le più giovani, ha un segno profondo lasciato dalla violenza fisica, sociale e mentale. La famosa violenza strutturale, che per quanto l’Organizzazione delle Nazioni Unite la combatta, misteriosamente non muore mai. Questo ho imparato, e questo mi impedisce di raccogliere testimonianze: per quanto bene io possa poi trascriverle, le mie parole saranno sempre comunque insufficienti. Quindi resto seduta ad aspettare. Poi finalmente arriva la Magui, e andiamo al fiume.

***

Il Novillero, così si chiama il fiume che passa per Tapanatepec, scoppia di persone. Madri e figli che fanno il bagno, gente che lava vestiti, un uomo si è portato una rete e pesca. Per un momento non è più “l’esodo”, ma solo risate, corse e tuffi. Sembra di essere a un gigantesco barbecue domenicale, solo che non c’è da mangiare, e ci sono due pattuglie di federali che ci osservano da sopra il ponte, in piedi sulle auto, le armi in bella mostra. Qui però le armi non impressionano più nessuno, e l’unica cosa che si sente è l’entusiasmo di questa folla in movimento, che da una sponda all’altra del fiume mi urla “Güera, andiamo negli Stati Uniti o che?”. E non è il solito commento fastidioso del “macho latino”, stavolta è un’altra cosa, è la vitalità che sgorga da quest’umanità giovane, determinata e irriverente, che vince un contesto totalmente violento e repressivo, e crea qualcosa di tanto surreale come rivoluzionario, come l’euforia di star compiendo un’impresa che è una sfida aperta all’attuale sistema capitalista.

Alla fine, l’unica cosa che i migranti non stanno rispettando sono quelle leggi migratorie che la stessa società “civile” condanna, perché in flagrante contraddizione con costituzioni statali e trattati internazionali. Condanna ma non combatte, e questo è forse ciò che la rende “civile”, il fatto di esprimere civilmente un parere contrario, ma di non agire per cambiare una realtà che non la convince. La società civile denuncia, sostiene, simpatizza ma, fondamentalmente, non agisce. Quelli che stanno migrando sì. Questo toglie loro “civiltà”? In Messico, scrive Victor Javier Martínez Villa, un ex membro del Programma Universitario Diritti umani dell’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM), “la facoltà stabilita nell’articolo 97 della legge sull’immigrazione è una misura contraria al rispetto del diritto di transito, dal momento che la legalizzazione dei punti di controllo amministrativi è un eccesso di controllo sull’immigrazione”. La legge sull’immi­grazione messicana è quindi irregolare tanto quanto i migranti, e se la legge non rispetta loro, perché loro dovrebbero rispettare la legge?

Ho sentito molte versioni sul destino di questa carovana, o esodo, o come vogliamo chiamarlo. L’ottimista: gli offriranno asilo a Città del Messico. Il probabile: formeranno un tappo al confine con gli Stati Uniti. La terribile: li “affideranno” al narcotraffico, che al nord farà una mattanza e capiranno che il Messico è pericoloso e smetteranno di venire. Tutti gli “esterni” a cui ho chiesto come pensavano che sarebbe andata a finire questa migrazione di massa, mi hanno risposto scuotendo la testa o serrando le labbra, per poi emettere la prognosi. I migranti, invece, rispondono per lo più con un “vai a sapere”, e dopo scoppiano a ridere e aggiungono: “ma stiamo andando negli Stati Uniti, e andremo negli Stati Uniti”. Se parliamo in termini materiali, queste persone non hanno più nulla da perdere, alcuni sono senza casa e vivono con altri parenti in ambienti ristretti, altri potrebbero non ottenere mai nemmeno un lavoro, non hanno soldi, acqua potabile, cibo. Da anni sopportano il saccheggio del “nord”, i colpi di Stato, le escalation di violenza, i rapimenti, i femminicidi, le estorsioni. Ora, tutto ciò che rimane loro è anche l’unica cosa che non sono disposti a perdere: la loro dignità di esseri umani.

Il fenomeno della carovana ha significato l’esplosione di una realtà quotidiana. La carovana è qualcosa che succede tutti i giorni, e sicuramente in meno di un mese si raggiunge lo stesso numero di persone che ora sono partite insieme in un giorno solo. Sono le tante piccole carovane sconosciute, silenziose, discrete, private, riservate, nascoste e persino vissute con vergogna, che, con questa esplosione, si sono trasformate in una carovana visibile, pubblica e dignitosa.

Questo scrive padre Melo, voce honduregna di Radio Progreso, e questo si legge sui volti scottati del popolo dell’esodo. Ed è emozionante.

Tornando dal fiume, ho preso la macchina fotografica.

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“Vi riporterà indietro, quello è pazzo, Trump ha questi elicotteri che manda in Iraq e con quelli in una settimana vi riporta indietro tutti”.

La voce viene da dietro un cancello bianco, che circonda le pareti verdi di una casa “stile migrante”, di quelle con le pareti dipinte e le colonnine bianche sui balconi, che spiccano in mezzo alle altre del paese, fatte solo di cemento e a volte pure col tetto in lamiera. Una casa di quelle che, quando la vedi, sai che lì dentro qualcuno è andato negli Stati Uniti, e ha mandato denaro per costruirla.

L’uomo che ci vive è l’unico che, nella notte tra il 27 e il 28 di ottobre, si affaccia a interagire con i migranti. Tutti gli altri abitanti della sua strada -una strada che sicuramente ha un nome, ma per oggi è solo “la strada che da dove c’è la Croce Rossa scende a sinistra”- restano trincerati in casa, come la maggior parte di Tapanatepec, che oggi sembra un villaggio fantasma. Dall’altro lato del cancello, un’altra voce risponde: “Trump è pazzo, ma JOH [il presidente dell’Honduras Juan Orlando Hernández] è più pazzo ancora e, se torniamo, in una settimana ci uccide tutti. Quindi non torneremo».

Rimango seduta sul marciapiede, in silenzio, un’altra volta, a guardare questo diciottenne, mentre entrambi aspettiamo che i cellulari si carichino, attaccati alla presa che il signore della casa ha messo a disposizione. “Adesso”, continua lui, “ha creato un nuovo corpo poliziesco che si chiama AIT: vengono a prenderti a scuola, ti tirano fuori con la forza e il giorno dopo qualcuno ti ritrova morto e legato. Juan Orlando è più pazzo di Trump, ci ucciderà tutti se torniamo”.

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Mezz’ora prima di questa conversazione, era stato il delirio. Appena dopo la riunione della sera, nella quale si prendevano decisioni per il giorno successivo, quando ormai non rimanevano né giornalisti né difensori dei diritti umani, qualcuno aveva messo in giro la voce che era stato rapito un bambino e, subito dopo, qualcun altro aveva additato un presunto responsabile. La folla stanca e agitata si era quindi scagliata sullo sconosciuto, la pattuglia della polizia statale non interveniva e da non so dove erano spuntate le telecamere di Televisa, una specie di Mediaset messicana, a riprendere la scena. In un’ora i giornali online messicani iniziavano a titolare che i migranti sono violenti, pericolosi, e si fanno giustizia da sé. La gente dell’esodo aveva sperimentato, per la prima volta da quando si trovava in Messico, la strategia della provocazione a fini diffamatori, diffusa anche nei loro paesi, per togliere consenso ai movimenti, giustificare le detenzioni arbitrarie e gli interventi repressivi.

Se ne resero conto a tafferuglio finito, dopo che finalmente la polizia intervenne, portandosi il sospettato in questura, e le telecamere si spensero. Fu allora che i miei occhi increduli, che seguivano tutto dall’inizio, videro migliaia di persone passare dalla collera cieca e il caos totale alla discussione posata e alla riflessione. In assemblea realizzarono di essere stati provocati e di essere caduti nella provocazione, di aver agito senza pensare, di aver ceduto alle viscere. Decisero di indire una conferenza stampa per il giorno seguente, nella quale avrebbero spiegato l’accaduto e chiesto scusa per la loro reazione avventata e il loro comportamento violento. Decisero anche di non avanzare ma di fermarsi a riposare, e redigere un “regolamento interno” della carovana. Non era solo tornata la calma, ma anche la lucidità e l’auto-organizzazione. “Questo è come il trasporto pubblico al DF” [il Distretto Federale, cioè Città del Messico], mi dice Magui, “non ha nessuna logica, ma funziona”.

Alle sei del mattino del giorno successivo, commissioni di migranti pulivano già la piazza e le strade circostanti la chiesa. Alle sette cominciava l’assemblea: si concordò il contenuto della conferenza stampa; fu istituita una commissione di vigilanza e sicurezza interna, a rotazione, incaricata di investigare casi simili e prevenire incidenti; si vietò formalmente l’uso di alcolici; si regolamentarono le partenze e si sancì la priorità di donne e bambini sui mezzi di trasporto solidali; si decise la ridistribuzione dei “giubbetti verdi”.

Questi ultimi sono uno dei “miti” dell’esodo, come purtroppo quella dei bambini rubati, una voce fatta correre con la carovana fin dall’entrata in Messico e che, a Tapanatepec, ha dato i suoi frutti, creando problemi dove ancora non ce n’erano, e mostrando una debolezza dell’esodo, per poi esporlo al giudizio e al rifiuto della gente. La carovana non ha il tempo di speculare sull’origine di questa minaccia, ma si è dimostrata consapevole dell’esistenza di tentativi per sabotarla. E i “giubbetti verdi” erano stati le prime “vittime” di questa disinformazione provocata.

Sono diventati famosi sulle sponde del Suchiate, il fiume di Ciudad Hidalgo, che divide il Messico dal Guatemala. Volevano aiutare i migranti ad attraversare il fiume e per farsi riconoscere si erano messi un giubbetto verde fosforescente, di quelli che si usano per segnalare i lavori in corso o un incidente. Qualcuno però disse che erano membri degli Zeta, uno dei cartelli messicani più sanguinari, e che una volta in Messico avrebbero rapito chi gli aveva dato fiducia. Le tragedie vissute dai migranti in transito per il Messico in questi ultimi anni rendevano assurdamente plausibile la teoria. In realtà, erano un gruppo di ragazzetti e ragazzette dell’Honduras e del Salvador che sapevano cosa fare solo perché l’avevano già fatto. E quando ciò finalmente fu chiaro, il loro aiuto fu più che benvenuto. Almeno fino alla sera di sabato 27 ottobre, quando, dopo la tensione vissuta, si decise di ridistribuire i famosi giubbetti ai “nuovi agenti di sicurezza”. Il momento del passaggio di consegne fu preso molto sul serio, e se da fuori sembra una sciocchezza, si dovrebbe pensare a cosa significa farsi carico di vigilare e monitorare la sicurezza di quasi diecimila persone. Indossarlo significa che tutti, dai migranti agli impiegati del sistema socio-sanitario messicano, passando per la stampa, la Croce Rossa, Oxfam, UNICEF e ACNUR, in un momento o l’altro del giorno, ti chiederanno qualcosa, dall’ora fissata per la partenza a se Bartolo Fuentes è o no l’organizzatore della carovana. I “vecchi giubbetti” non davano interviste e volevano passare inosservati. Forse erano troppo giovani per quel ruolo, ma hanno già visto tanto, e non hanno paura di niente. Quelli nuovi, non li conosco.

***

Non è solo una carovana. Si tratta di un fenomeno sociale portato avanti da migliaia di cittadini, rurali e urbani, impoveriti, che si manifesta in grandi e massicce carovane spontanee e improvvisate, con l’unica organizzazione che è quella che ti detta la sopravvivenza e l’aperta volontà di avanzare fino al nord, fino a raggiungere il territorio degli Stati Uniti. Non è la prima volta. L’anno scorso, 2017, nel mese di aprile, ci fu una carovana di circa 800 centramericani, con il 75% di honduregni. A sua volta, c’è un movimento di circa 300 honduregni che ogni giorno cercano di attraversare il confine di Aguascalientes, tra l’Honduras e il Guatemala, e molti di loro rimangono lungo il cammino.

Ha ragione Padre Melo, non è solo una carovana, non è la prima e non sarà l’ultima. Non esistono dati ufficiali che permettono di conoscere esattamente il numero di persone che entrano in Messico, ma si stima che siano tra 300 e 400 mila i migranti che ogni anno entrano attraverso il confine meridionale, con l’intenzione di raggiungere gli Stati Uniti. Fino ad aprile 2018, la Commissione Messicana per l’Aiuto ai Rifugiati (COMAR) aveva registrato 14.556 richieste di asilo, per lo più da persone provenienti dal cosiddetto Triangolo Nord (Guatemala, Honduras, Salvador). Sulla carta, i dati vengono aggiornati solo fino a gennaio-agosto 2017, con 8.703 domande di asilo. Le sei nazionalità più comuni sono, nell’ordine: Honduras (2.443), Venezuela (2.113), El Salvador (2.074), Cuba (797), Haiti (403), Guatemala (354). Con questi numeri, si capisce che quest’esodo è così scioccante solo perché per la prima volta vediamo questo fiume di persone camminare insieme, ma se pensiamo che si parla di circa 400 mila immigrati l’anno, questo significa che sono più di mille al giorno quelli che cercano, in piccoli gruppi, di entrare e uscire vivi dal Messico.

Due giorni fa, il 30 ottobre, più di mille salvadoregni hanno di nuovo passato il confine tra Tecín Umán e Ciudad Hidalgo, nel mezzo di un’operazione di sicurezza dell’esercito messicano che per un paio d’ore ha trasformato la Suchiate nel Mekong, con gli elicotteri che sorvolavano i migranti, disorientandoli e impedendo loro di nuotare, e le pattuglie dell’Istituto Nazionale dell’Immigrazione che, dal lato messicano, aspettavano quelli che riuscivano a passare, pronti per la deportazione di massa. Alla fine, sembra che siano stati circa cinquecento quelli che sono riusciti ad attraversare il fiume e a raggiungere Tapachula e poi Huixtla, ma l’impressione è che la seconda ondata sarà molto meno “assistita” della prima che, grazie all’effetto “novità”, ha goduto di una certa paralisi degli interventi repressivi, anche dovuta alla forte attenzione mediatica-umanitaria.

In altre parole, con il passare dei giorni, sia le autorità messicane che gli Stati Uniti hanno alzato il livello di allerta e intensificato le misure di repressione. È una notizia di ieri, 31 ottobre, che l‘Esercito degli Stati Uniti si sta preparando a inviare questo fine settimana 5.200 soldati al confine messicano, per effettuare i preparativi previ all’arrivo delle carovane. E oggi, 1 novembre, l’esodo ha annunciato un cambio di rotta, dovuto alle difficoltà di arrivare alla città di Oaxaca, visto che la solidarietà della società civile, che aveva messo a disposizione alcuni autobus, è stata vinta dalla pressione del governo federale del Messico, che ha intimato la cancellazione delle corse.

Con l’avvicinarsi delle elezioni di medio termine, l’interesse di Trump nel capitalizzare l’evento carovana non sorprende. Come non sorprende che l’esecutivo di Peña Nieto stia prendendo tempo, dispiegando operazioni di polizia per il rimpatrio di migranti ma senza assumere una posizione politica precisa in merito alla questione. All’inizio di dicembre, López Obrador sarà ufficialmente il nuovo presidente del Messico e il problema sarà suo. Del resto il Messico, da decenni, “risolve” a modo suo la questione dei migranti irregolari: il Movimento Migrante Mesoamericano denuncia che sono più di 34 mila i migranti scomparsi durante il transito nel paese, mentre il Procuratore Generale della Giustizia parla di 175, registrati fino al 30 aprile dell’anno in corso.

Dove siano queste persone, così come dove sono le migliaia di messicani scomparsi negli ultimi dieci anni, è una domanda a cui la società civile, con le sue civili denunce, fino ad oggi non è stata in grado di rispondere. Non resta che sperare che l’esodo a cui stiamo assistendo in questi giorni lasci dietro di sé un po’ della sua irruente capacità di trasformare la volontà in azione, del suo coraggio di non rispettare delle regole che sono ingiuste e imposte, senza il timore della repressione dei governi, e del giudizio e rimprovero dei “civili”.

Volevo scrivere molto meno, ma non ho potuto. Se avvicinarmi all’esodo era stato complesso, allontanarmi da esso lo è stato molto di più.

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