Z. Brzezinki

di Raúl Zibechi
14 gennaio 2022

Un anno dopo la rivolta zapatista, durante il Forum sullo stato del mondo (State of the World Forum) a San Francisco, nel 1995, membri di spicco delle élites globali si trovarono a commentare le strategie che avevano concepito.
Come è noto, perché l’argomento è stato trattato in diversi libri e in molti media, Zbigniew Brzezinski (ex consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione del presidente americano Jimmy Carter e ideologo del neoliberismo) espose la sua teoria, la Società 20-80, che è poi diventata il paradigma delle classi dirigenti, anche se evitano di enunciarla per ragioni più che ovvie.
Brzezinski sostiene che il 20% della popolazione mondiale sarebbe sufficiente per sostenere il sistema economico e che il restante 80% non avrà lavoro, né opportunità, né futuro. Il primo gruppo è quello che partecipa dei benefici del sistema: consumo di qualità, sanità ed istruzione private, posti di lavoro in aziende ad alta tecnologia.
L’immenso 80 per cento, che sta in basso, consuma cibo spazzatura, si riempie la pancia ma non si nutre, è intontito da divertimenti che lo instupidiscono e gli impediscono di capire quello succede. Quelli che stanno in alto leggono libri e giornali, frequentano le università, viaggiano e hanno la possibilità di risparmiare. Il resto guarda solo la televisione, le telenovelas e le partite di calcio.
Per descrivere il trattamento destinato alla maggioranza del sistema-mondo, Bzrezisnki ha coniato il termine tittytainment (tetta più intrattenimento, a significare l’effetto soporifero dell’allattamento sui neonati).
Fin qui il quadro abbastanza familiare di ciò che sta accadendo nel mondo di oggi, diciamo dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. Si può discutere sulle percentuali (20-80 o 30-70), ma sembra fuori discussione che il mondo sia diviso in questi due settori: quelli che sostengono il sistema e quelli che sono sacrificabili.
Il problema principale è quello che sottolinea Carlos Fazio (“El corona totalitarismo y las masas”), basandosi sull’analisi dello psicoanalista Mattias Desmet. Mi sembra che il cosiddetto “gruppo dissidente” [coloro che esprimono il proprio disaccordo] debba essere ben al di sotto del 30% menzionato nell’articolo. Sarebbe bello se fossimo il 10%, ma mi sembra inutile soffermarsi sulla questione delle percentuali.
La questione centrale è se sia possibile unirsi, come dice Fazio, e quali difficoltà si incontrano nel farlo. Mi sembra che ci siano diversi problemi da superare, sia strutturali che culturali.
La prima difficoltà sono le naturali differenze all’interno del settore antisistema, in particolare le differenze sessuali e di genere, le contraddizioni e i disaccordi tra generazioni, le differenze nel colore della pelle, nella geografia e nella cultura, che rendono difficile creare un “noi”, un’identità collettiva, o, in alternativa, spazi di confluenza tra diversi e diversità.
In secondo luogo, tra quelli di noi che si definiscono anticapitalisti non c’è una posizione comune antipatriarcale e anticoloniale, cosicché il machismo e il razzismo continuano a provocare spaccature e rotture. So di alcuni collettivi che sono letteralmente falliti a causa degli atteggiamenti maschilisti di alcuni membri.
La terza difficoltà da superare è la cultura politica statalista o stato-centrica. Non possiamo trascurare il fatto che l’adesione alle politiche sociali – come espressione della cultura statalista – è ancora maggioritaria nell’ordine dell’80 per cento tra coloro che stanno in basso. Al contrario, la propensione per l’autonomia e l’autogoverno è minoritaria, anche tra i movimenti che lavorano in questa direzione.
Senza fare nomi, sappiamo di importanti movimenti popolari le cui comunità sopravvivono grazie alla coltivazione di droga, il che contraddice brutalmente gli obiettivi prestabiliti, poiché li rende ostaggio del narcotraffico e, quindi, dei gruppi paramilitari e dello stesso Stato.
Tuttavia, una difficoltà fondamentale ad agire insieme, che divide profondamente i movimenti e le organizzazioni, viene dalla sinistra. Una parte cruciale dell’intrattenimento instupidente è il sistema politico, il circo elettorale: pane e spettacoli del circo, come dicevano i romani, che oggi possiamo tradurre in politiche sociali e campagne elettorali.
La sinistra che sta in alto, la sinistra elettorale e istituzionale, è una parte centrale dell’intrattenimento offerto dal sistema, con la sua promessa di rinnovamento ogni quattro o sei anni, che richiama le stesse strategie di marketing usate per vendere il sapone. Professa la cultura del consumismo che caratterizza il capitalismo e ha monopolizzato la politica elettorale.
Questa sinistra è intrappolata nel binomio dittatura-o-democrazia, e sceglie sempre il male minore, anche se sa che così non si può costruire nulla di nuovo.
Indipendentemente da quanti sono veramente impegnati a superare questo sistema, ciò che sembra decisivo è andare verso autonomie territoriali in cui esercitare l’autogoverno, capaci di creare nuovi mondi. La loro moltiplicazione avverrà per contagio.

Fonte: “El 80 por ciento, sin estrategias y confundido”, in La Jornada, 14/01/2022.
Traduzione a cura di Camminardomandando.