diritto o rovescio

di Gustavo Esteva

A volte riusciamo a tirar fuori un compagno dal carcere, fermare le ruspe che arrivano a distruggere un villaggio, frenare un mega progetto, impedire una spoliazione… A volte ricorrere alla legge, ai procedimenti giudiziari, produce risultati. Ma questa non dovrebbe essere l’unica ragione per continuare a utilizzarli, come se niente fosse.

Prima di tutto, dobbiamo riconoscere che gli spazi vanno chiudendosi. In molti casi, otteniamo un risultato solo quando uniamo alla lotta giudiziaria una pressione sociale e politica. E’ sempre più difficile far valere il diritto o i diritti. Quella che era per Benjamin la tradizione degli oppressi si estende a strati sempre più ampli della popolazione: le regole dello stato d’eccezione, la situazione in cui la legge si utilizza per rafforzare l’illegalità.

Nel carcere, la natura del potere non ha bisogno di mascherarsi: può mostrarsi in tutta la sua nudità e crudezza. Guadagna senso così l’osservazione di John Berger secondo il quale la prigione è la parola che meglio definisce la condizione attuale nel mondo: siamo incarcerati. Ciò che oggi si sperimenta quotidianamente è che il potere fa mostra della sua natura senza inibizioni. Vediamo, inoltre, che sta mostrando i suoi aspetti peggiori e che esibisce e spettacolarizza ciò che prima dissimulava o nascondeva sotto il tappeto. Questo fa già parte della strategia intimidatoria.

Continuare a usare i processi giudiziari non dev’essere solo per motivi pragmatici. Il diritto deve conservare la sua forza e il suo significato persino in circostanze come quelle attuali, quando l’intero apparato giudiziario è contaminato dall’illegalità, la corruzione e l’ingiustizia; quando è apertamente a favore dei privilegiati; quando serve solo a stendere un velo sulla natura dispotica del regime che lo amministra.

Queste circostanze non devono farci dimenticare l’idea stessa del diritto, la formulazione e l’applicazione di norme. I procedimenti giuridici non possono essere separati dai procedimenti politici: sono strutturalmente intrecciati. Entrambi modellano ed esprimono la struttura della libertà all’interno della storia, ed è quella struttura che oggi abbiamo bisogno di ricostruire o che dobbiamo creare dove non è mai esistita. Questa è la chiave per fermare l’orrore.

I partiti hano perso ogni credibilità e i governi la poca legittimità che avevano. Gli uni e gli altri, insieme alle tecnologie e ai sistemi, si sono trasformati in puri strumenti strategici di potere con i quali veniamo manipolati e controllati. Pare chiaramente impossibile salvare dalla rovina tutto questo mondo che cade violentemente a pezzi intorno a noi, distruggendo sia la natura che la cultura. In questa situazione, in momenti così chiaramente apocalittici come quelli attuali, non ci resta che ricorrere alla ricostruzione.

Ricostruire oggi, come espressione suprema di resistenza, non è aggiustare o correggere istituzioni sempre più controproducenti, minacciose e irrazionali. A rigore, nulla le potrà salvare. Ciò che si sta cominciando a vedere è che alcuni dei suoi operatori più scaltri se ne sono accorti e corrono a mettersi in salvo, da quegli sciacalli che sono [nota: il termine rata, in spagnolo, è usato per indicare una persona malintenzionata, che si approfitta dei più deboli]. Altri cercano di proteggersi dai numerosi crolli rifugiandosi in qualche tana istituzionale. Altri fuggono verso il futuro, e ce ne sono molti, anche ad alto livello, che non sembrano accorgersi di nulla e chiudono gli occhi per non vedere il disastro di cui sono parte.

Quello che c’è da ricostruire non è lì, ma in basso. E’ cosa certa che siamo stati spogliati di buona parte di ciò che ci eravamo conquistati negli ultimi 200 anni e che si continua a mutilare le libertà politiche su cui era fondata la nostra convivenza, ma possiamo ancora ricorrere al linguaggio ordinario e al processo formale per ricostruire o riformulare le nostre leggi nelle comunità e nei quartieri, all’interno delle nostre organizzazioni rinnovate.

Da qui, nel tessuto resistente di uomini e donne reali che si conoscono tra loro, che si possono riconoscere negli occhi dell’altro o dell’altra, negli spazi in cui vivere il ‘noi’ è uno stato di cose e un modo di essere, possiamo seriamente dire la verità, dircela tra di noi. Lì possiamo denunciare il carattere irrimediabilmente canceroso e inguaribile delle formule e delle istituzioni dominanti e nutrire, di fronte ai disperati di ogni genere che ci spuntano intorno, le speranze che si traggono da un’autentica costruzione autonoma.

Queste speranze non rappresentano il trionfo dell’ottimismo sulla realtà. Non sono mere illusioni. Sorgono dalla percezione che l’impegno autonomo organizzato, quello che viene dal basso, quello che si afferma con dignità di fronte a tutti i disastri e sa che la vita è lotta, si allarga sempre più e comincia ad apparire come una rete di rifugi interconnessi e autosufficienti in mezzo alla tormenta, che annunciano già un’altra possibilità.

traduzione a cura di camminar domandando