Metà dei messicani hanno perso la sete. Al suo posto, hanno il bisogno compulsivo di soddisfare la propria dipendenza da una qualche bevanda a base di cola. Non li soddisfa un bicchiere d’acqua. Hanno bisogno del prodotto commerciale.

Dare ai nostri desideri e ai nostri bisogni la forma di una merce è uno degli effetti più dannosi e profondi della società capitalistica. La sete illustra bene la questione, perché anche l’acqua sta diventando un merce ed è motivo di rapina e di violenza; fa parte ormai della lotta sociale l’impegno per restituirle il suo carattere sacro e garantirne il libero accesso, ricostruendo nello stesso tempo la sete come desiderio di acqua.

Non è un caso o un disguido che il Messico abbia conquistato il primo posto nella classifica mondiale del consumo pro capite di bevande a base di cola. La cifra è sconvolgente: 163 litri pro capite all’anno (mezzo litro al giorno), a fronte di una media mondiale di 22 litri. Dal momento che molti non ne bevono, devono esserci molti ‘drogati’ che ne consumano più di un litro al giorno, a scapito sia della propria salute che della propria economia.

Non si è arrivati a questo punto in virtù di un processo naturale: si tratta di un risultato indotto che illustra bene la misura in cui il sistema politico è al servizio del capitale. Non solo abbiamo avuto un presidente che era stato il manager della principale compagnia produttrice di bevande a base di cola. Oltre a ciò, le classi politiche non poterono ricorrere ai mezzi legali per bloccarla, nonostante le pressioni pubbliche. La compagnia utilizza oggi il sistema legale messicano come modello per altri paesi: le permette di continuare a incentivare il consumo.

Questo consumo è chiaramente in relazione con altri. Il palato di bambini e bambine viene educato a preferire il dolce, per cui restano intrappolati in certi consumi. Le conseguenze sono evidenti. Il diabete è già riconosciuto come un’epidemia. E c’è una previsione agghiacciante: delle bambine e dei bambini nati in Messico a partire dal 2010, uno su due saranno diabetici… se le cose continuano ad andare come stanno andando.

In definitiva, si tratta proprio di questo: di impedire che le cose continuino ad andare come stanno andando. E ciò esige non solo che ci si liberi di appetiti, impulsi, atteggiamenti e abitudini che sono stati modellati a beneficio del capitale. Esige anche trasformazioni profonde negli impegni di emancipazione.

Il movimento operaio ha sempre lottato per l’orario di lavoro, i salari, le condizioni di lavoro e l’occupazione. Tutto questo ha avuto valore e significato… ma ha intrappolato la lotta nella logica del capitale e ha contribuito all’espansione del capitalismo. L’indebolimento palese del movimento operaio si spiega in parte con il fatto che si è andati avanti per inerzia in questa direzione.

È indubbiamente un vantaggio che i lavoratori si facciano carico delle imprese e si riapproprino dei frutti del loro lavoro, ma non è sufficiente. Finché si rimane legati al mercato per vendere quello che si produce e acquistare il necessario per vivere, si continuerà a rimanere intrappolati nella logica dominante. La lotta anticapitalista non può ridursi alla questione della proprietà dei mezzi di produzione, anche se questa rimane fondamentale.

Non basta nemmeno distinguere, nella merce, il valore d’uso dal valore di scambio. Gli usi dei prodotti corrispondono a desideri e bisogni già plasmati dal capitale, secondo la logica del massimo profitto. Ciò di cui abbiamo bisogno è organizzare le attività umane prescindendo totalmente dalla nozione di valore e concependo i frutti dello sforzo senza mettere in conto il valore.

Si tratta di riconquistare la creatività umana e di combattere tutte le forme di alienazione, tutti i modi in cui le attività stesse e i loro frutti ci diventano estranei, alieni… e cominciano a dominarci.

Il recupero di libertà e significato non è un atto che si possa realizzare su scala globale, nazionale e neppure regionale, a motivo, fra l’altro, del pluralismo della realtà. Lo smantellamento del capitalismo dovrà essere globale, ma per liquidare i suoi effetti perturbatori e distruttivi bisogna cominciare su piccola scala, nei quartieri o nelle comunità, facendo riferimento a modelli culturalmente differenziati. Su questa scala è possibile abbandonare la logica del massimo profitto per il capitale come fattore determinante dell’attività produttiva e dei desideri e bisogni.

Nulla di tutto ciò deve essere visto oggi come un esercizio teorico, una mera speculazione, o come un suggerimento utopico. Sto parlando di un processo in corso. È ciò che hanno cominciato a fare molti gruppi, sia nelle campagne che nelle città, di fronte all’onda distruttiva del capitale. Lo fanno spesso per motivi di stretta sopravvivenza. Riprendono i propri modi di mangiare, imparare, curare, abitare, giocare, amare… Ri-conoscono i propri desideri e i propri bisogni, che erano andati perduti nello stampo delle merci. Ri-apprendono o inventano forme di interscambio in cui non conta più il valore, e in cui l’uso si adatta alla forma di un ‘noi’ che non era stato smarrito o che finisce col crearsi. Recuperano la sete, specialmente di giustizia, che era stata distrutta dal mercato e dallo Stato e che prende di nuovo la forma di tradizioni in cui non è possibile comprarla. È vero, questo paragrafo può sembrare misterioso. Come svelare il suo mistero? (È indubbio che i piccoli produttori, molti dei quali seguono già questa strada, producono attualmente il 40 per cento degli alimenti del paese… E tutto questo avviene a Juchitán).

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traduzione a cura di camminardomandando